Estate, tempo di attività all’aperto. La bella stagione è un fiorire di eventi che hanno più o meno al centro la cosiddetta “street art”.Con questo inglesismo oggi s’intendono a torto o ragione tutte quelle forme artistiche, più spesso pittoriche, che si svolgono nello spazio pubblico.
Da una decina d’anni almeno, le amministrazioni comunali di tutto il mondo hanno di diritto inserito la street art nella loro programmazione culturale. La street art accorcia le distanze tra le generazioni, svecchia il calendario degli eventi, offre opportunità a giovani talenti, rende taluni angoli delle città nuovamente degni di nota… e poi è di gran moda; chi può resisterle!
Ma quello che dieci anni poteva solo essere salutato con sorpresa e meraviglia, oggi inizia anche a fare discutere; dal fondo della sala, si alzano le prime timide critiche verso lo show.
È per caso giunto il momento di porci delle domande, prima di prendere il secchiello del colore? Io sono convinto di sì.
Il primo dubbio sulla muralizzazione selvaggia delle nostre città è sicuramente la questione “d’opportunità”: c’è realmente una necessità, sentita o invocata dai cittadini, di colorare (illustrare, raffigurare ecc.) ogni muro utile e cieco dei nostri palazzi? Siamo davvero tutti d’accordo che il grigio o il tinta unica sia il male assoluto? Se il paesaggio appartiene a tutti, chi decide sull’estetica degli spazi pubblici? Ha la città un progetto complessivo, un piano generale?
La street art avanza estate dopo estate a colpi di festival. Prende spazi, porta artisti, crea murales. Per amore di fare qualcosa, si bada poco ai dettagli e ancora meno alle domande. Il testimoniare alla collettività di “fare” qualcosa, è un’impellenza che accomuna sia gli organizzatori (che ambiziosamente si autodefiniscono anche “curatori”) che gli assessori. Forse a causa di questa bulimia di operatività, si procede senza un copione, a braccio. Come se non bastasse, i nuovi artisti del settore sembrano dei menestrelli in un world tour: sono impegnati ad abbellire il mondo, in modo uguale, però. Spuntano dunque disegni assai simili, non curanti del luogo e delle situazioni: Bangkok come Kiev, Gela come Belluno. È il nuovo muralismo, bellezza.
Deve l’artista d’oggi indossare i panni del ricercatore etnologo, o dell’esteta conquistadores, atto a colonizzare il mondo? Nello scorso secolo Kandinskij teorizzò che il dovere di un’artista sia di stare nel tempo e nel luogo: chi non si fosse preoccupato di queste due variabili, avrebbe fallito la missione etica.
Favoriti dall’interesse delle amministrazioni che attraverso la pittura puntano alla riqualificazione urbana a basso costo, i festival cascano ripetutamente nell’errore di portare a spasso una manciata di street stars senza però offrire (agli artisti e alla popolazione) uno scambio che sappia accorciare la distanza tra il muro e lo spettatore. Gli artisti più gettonati vengono ormai di tutta fretta, con un ingaggio in tasca e un bozzetto portato da casa. Svolgono un lavoro frenetico e solitario in cima a un cestello e mentre dipingono già pensano alla tappa successiva. Troppi festival non ricercano alcun dibattito, non si pongono alcuna linea identitaria, non si distinguono per alcuna curatela o non fanno oltre il muro, alcun punto della situazione. I festival che dovrebbero essere il terreno d’incontro per artisti e opinioni, sono più paragonabili a fredde esibizioni canore televisive; virtuosismi tecnici e nessuna sostanza.
Sovente chi organizza è un semplice appassionato che, senza alcun titolo, si è lanciato a organizzare eventi urbani con o senza scopo di lucro, con o senza un domani. Non deve stupire quindi se non si fa teoria (talvolta la si ripudia) e se numerose prassi dell’arte vengono sorvolate. È arte per le masse, venuta dal basso. Ecco perché le ragioni predominanti sembrano essere unicamente estetiche (ancora, a 100 anni esatti dalla nascita del Dadaismo!); la street art che più si favorisce è quella parietale, a discapito delle altre forme d’arte che, usufruendo dello spazio e della gente in modo attivo, tentano l’evoluzione delle esperienze precedenti (interventi, land art, performance ecc).
Se c’è poco spazio per le piccole istallazioni d’arte effimera è perché sindaci e Comuni intendono ricevere in cambio alla loro ospitalità, delle opere che possano rimanere, che non siano immateriali. S’incoraggiano quindi i dipinti, che incontrano pure il favore di galleristi e sponsor. È così che un variegato panorama si riduce alla sola pittura, tanto da farci identificare la parola “street art” con i grandi murali urbani.
Le pecche o le falle del sistema non devono però farci gridare al naufragio della street art e dei suoi eventi. È grazie ai festival e all’interesse delle amministrazioni se la carriera di numerosi artisti ha preso il volo (Blu in primis); è grazie a questi appuntamenti periodici se i media e il pubblico hanno avuto (più delle mostre) l’esperienza più vera e diretta.
Gli street festival, certamente, non sono tutti uguali. Struttura e coordinazione, obiettivi e presentazione, marcano la differenza tra il buono e il cattivo esempio. Non è più sufficiente farli; oggi più che mai è giunto il tempo di ingaggiare una sfida in qualità, oltre che in termini di spesa e grandezza.
Che fine dare a eventuali fondi privati, pubblici, o a finanziamenti europei? Come impostare un evento d’arte urbana evitando i sistematici errori e le leggerezze attuali? Come possono gli artisti onorare un invito al meglio?
Io dico che qui occorre capovolgere il tavolo, piuttosto che cambiare sedia. È tempo di far spazio alle idee, non solo spazio alle mani migliori. È tempo di parlare all’intelletto della gente, non solo alle pance. Rifiutare l’idea che l’arte pubblica debba essere pro qualcosa e non per se stessa. Perseguire bellezza e decoro può essere una trappola, lo stile una gabbia; l’arte può essere anche reset e distruzione; può anche corteggiare l’assurdo e l’anti-arte. È tempo di progetti, non di appunti portati da casa. L’artista deve poter trovare un budget e tutta l’assistenza possibile per sviluppare un concetto che nasca fortemente dall’esperienza con il luogo. Creare residenze, non passerelle mediatiche. Favorire il dibattito, che dovrebbe proprio grazie ai festival uscire da Facebook. Fare nascere scambi, incontri, unioni artistiche. Sperimentare. Iniziare in aula, finire nelle strade. Annunciare il prossimo futuro, come fa la moda, fissando standard. Indicare una via, una via d’uscita da questa benedetta street art. Rifiutare la logica del denaro e del mercato, come priorità su tutto: l’arte e il mercato spesso non li puoi avere insieme. L’arte è ovunque nelle cose, serve pensare oltre il muro. Usiamo e predisponiamo delle persone, della città, dello spazio. Non servono grosse somme, servono teste: è da qui che si deve partire. L’arte non è una scampagnata tra amici o un’ammucchiata di nomi. Una cifra si può sperperare in uno sterile convegno con nomi illustri in un costoso hotel; si può usare tutta nella creazione di un gigantesco murale per mano di una celebre firma; si può tentare di raccontare una nuova storia, ingaggiare città, stimolare domande e consapevolezza.