Oggetti di studio e di intervento della socioterapia sono l’individuo, le sue rappresentazioni e il costante processo comunicativo con l’ambiente.
La Socioterapia, ambito professionale che deriva dalla Sociologia Clinica, si è sviluppata come un insieme eterogeneo di interventi basati sull’interazione tra più persone, gruppi o collettività ritenute in difficoltà. Storicamente, questo approccio è stato utilizzato soprattutto negli ospedali psichiatrici, quando ci si è accorti degli effetti devastanti che creava la concezione statica e custodialistica di tali istituzioni. Infatti, la permanenza prolungata in tali luoghi di cura sviluppava nei pazienti una vera e propria identificazione con il sistema, che impediva loro qualsiasi forma di recupero spontaneo. La Socioterapia, introducendo nuove possibilità d’intervento affidate ai pazienti stessi, evidenziò una serie di strategie volte al recupero e al potenziamento della parte “sana” dell’individuo problematico.
Sicuramente la manifestazione più significativa di questo indirizzo risale alla “Comunità Terapeutica” realizzata da Maxwell Jones in Inghilterra nel 1940. Essa si fondava su una condizione di perfetta uguaglianza dei membri dell’istituzione ospedaliera, medici, infermieri, terapeuti e pazienti, affidando a quest’ultimi un ruolo attivo nella dimensione del trattamento e favorendo così un rapporto continuato e dinamico tra individuo e individuo e tra individuo e comunità. Esempi di questo genere di trattamento possono ritrovarsi nel concetto di terapia occupazionale (basata su attività lavorative controllate), di servizi educativo/formativi integrativi per minori ed adulti (strutturati sulle possibilità soggettive e personali del singolo e/o del gruppo attraverso il gioco e/o l’acuisizione di abilità-competenze specifiche), di laboratori (organizzati per far emergere l’espressività creativa, figurativa e plastica dei partecipanti). In questo modo, il recupero si strutturava non più soltanto sulla base di interventi specialistici, ma anche sulla libera espressione del soggetto problematico che, costruendosi un’autonomia gestionale e risolutiva, era in grado di accelerare il proprio processo di reinserimento funzionale nella società.
La malattia mentale veniva perciò esaminata e studiata considerando ogni componente biologica, personale e sociale, attraverso un intervento sistemico e globale capace di leggere la realtà di ogni soggetto nella sua complessità esistenziale ed evolutiva.
Attualmente, la Socioterapia si applica in maniera efficace a qualsiasi contesto psicologico, psicoterapeutico, socioanalitico e d’aiuto. Assume grande rilievo negli interventi di Counseling intesi come sistemi di recupero autonomo del cliente che non viene più considerato come un paziente da curare, ma come una persona capace di recuperare soluzioni spontanee per superare specifici disagi emotivi. Infatti, attraverso un processo di autoaiuto, il Counselor incentiva un’evoluzione dell’organizzazione psichica del cliente, che diventa risorsa di se stesso per la gestione delle problematicità riportate nel setting.
Da ‘Malattie mediali – Elementi di Socioterapia’ di Leonardo Benvenuti:
‘L’interno diventa, congiuntamente, la conseguenza di una funzione rappresentativa collegata all’esterno e la sorgente di ogni tipo di azione, sia coerente che discontinuamente innovativa, in seguito a quanto elaborato a partire dalle rappresentazioni apprese e dalle capacità di loro modifica possedute dagli organismi.
Di qui l’importanza di interventi che per avere una portata terapeutica devono arrivare a modificare dall’esterno le rappresentazioni possedute dai singoli.
Rappresentazione= Immagine + Investimento affettivo
La rappresentazione è riconducibile, all’attività di un organismo che traduce nei termini del proprio sistema nervoso centrale i messaggi dovuti alla propria attività di riduzione sensitiva dell’ambiente: tale traduzione è una estrapolazione, sulla base del sistema di codici posseduto o in via di formazione, effettuata a partire da un ambiente che viene così trasformato in un sistema di segnali dai quali, a propria volta, parte o sui quali si effettua la propria funzione cognitiva, o di traduzione simbolica.
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La schizofrenia cognitiva è malattia comunicativa. Il ragionamento diviene formale. La vita mentale incomprensibile dall’esterno. Il comportamento appare dissociato, ma è tale solo per l’osservatore al quale manca il filo cognitivo costruito in modo autoreferenziale dall’individuo. La ricerca di dolore diviene continua, come unica possibilità di uscita dal simbolico: di qui l’apparente sollievo che accompagna sia le manifestazioni autoindotte di frustrazione, sia quelle eterodirette, manifestazioni che possono raggiungere apici estremi di violenza. Lo scontro si ritualizza e diviene generalizzato. La minaccia è in ogni aspetto della vita e della relazione e soprattutto nella dimensione comunicativa della relazione. Il responsabile viene individuato in qualunque titolare di relazione, soprattutto in colui che ha un ruolo di aiuto, di apparente interesse o semplicemente che viene percepito come sovraordinato rispetto all’individuo stesso e che può divenire oggetto di amore e/o di odio proprio nel momento in cui dovesse negarsi alla relazione completa nei termini decisi dal soggetto, decisione dalla quale possono discendere quei comportamenti aggressivi e violenti apparentemente immotivati.
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Tandem narcisismo/desiderio. Il desiderio agisce in maniera curiosamente ed estremamente distruttiva: in quanto tendenza verso un modello immaginato, e quindi del tutto simbolico, impronta il singolo spingendolo alla ricerca di un perseguimento di quest’ultimo ai fini dell’ottenimento di una soddisfazione; in quanto modello teorico al quale tendere – che, tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi non viene neppure sfiorato – rende visibile la distanza che separa il singolo dal modello desiderato stesso. Il narcisismo, in tale ottica, assume una veste terribilmente ambigua poiché si trasforma nell’egoismo cieco dei delusi, che porta contemporaneamente a percepire la valutazione negativa propria e a rifiutarne la responsabilità per attribuirla proiettivamente agli altri. Di qui una sensazione di accerchiamento che può arrivare a far commettere comportamenti violenti verso sé / o verso gli altri. La sensazione di un rifiuto auto / etero attribuito può portare a ferite profonde e quindi a tentativi di autoinganno, per nascondere le proprie sensazioni di colpa e di inadeguatezza. Da tali sentimenti possono nascere tentativi di decentramento delle colpe, ad esempio, verso i genitori, o verso le altre persone legate affettivamente, che quindi possono essere ritenute la causa di tutti i propri fallimenti con conseguenti possibili azioni violente nei loro confronti, sentimenti che possono anche essere diretti verso qualunque figura che arrivi ad assumere agli occhi del narcisista una funzione simbolicamente rilevante o di aiuto o terapeutica. La ferita narcisistica fa sentire il singolo vulnerabile e spesso questo lo trasforma in soggetto aggressivo, gestore di una capacità che viene destinata e impiegata, ventiquattro ore su ventiquattro, ad architettare interventi contro chi viene individuato come sostituto responsabile dei propri fallimenti e questo avviene contemporaneamente ad una lettura unidirezionale di tutto ciò che succede, aggravata da fatto che l’autoinganno è comunque cosciente e rende manifesto al singolo il fatto che sta mentendo a se stesso: per questo qualunque richiamo alla ragione non fa altro che fargli sentire la sua superiorità su chi sta trattando con lui e che, spesso, commette l’errore di attribuirgli una buona fede che lui sa non essere vera. Quest’ultimo aspetto non fa che rendere il singolo sempre più convinto di una propria superiorità vanificata, con conseguente arroccamento su se stesso e quindi con una sorta di auto conferma del fatto che l’inventata congiura contro di sé possa essere vera, l’importante non è che sia vera ma che possa esserlo, che sia verosimile (è questa l’autonomizzazione del simbolico). Di qui l’innescarsi di una sorta di automatismo con comportamenti sempre più aggressivi in una spirale che il soggetto stesso trova enorme difficoltà ad interrompere. Inoltre la perdita della centralità che il desiderio comporta, a causa del decentramento su di un modello esterno investito affettivamente, e il tentativo impossibile di ritorno al passato, per un recupero dell’onnipotenza perduta, possono provocare il fatto di porre in essere almeno due strategie: da una parte la ricerca di un’autorealizzazione allucinatoria, secondo il meccanismo già individuato della fuga in una fantasticazione fonte in sé di soddisfacimento; dall’altra l’utilizzo di un meccanismo quale quello dell’identificazione il cui uso, però, può essere terribilmente regressivo. La combinazione di entrambi questi meccanismi configura due possibilità purtroppo estremamente labili nei rispettivi confini:
– da un canto quello che potrebbe essere definito una sorta di narcisismo positivo, la cui funzione terapeutica può essere molto importante in quanto si configura come uno strumento potente per il terapeuta che in questo modo o porta a visibilità sindromi invisibili o interviene direttamente contrastando quelle visibili a decorso autodistruttivo, quali quelle legate alla dipendenza;
– oppure innesca meccanismi degenerativi che, soprattutto a partire dall’imitazione di un qualunque mito, non fanno altro che mettere in risalto i limiti personali e quindi aumentare il ricorso al soddisfacimento allucinatorio nel nome della virtualità e al di là del bene e del male. Il non raggiungimento di quanto elaborato sulla base del punto precedente può innescare un meccanismo di disincanto affettivo con trasformazione del narcisismo positivo in narcisismo negativo che può travalicare anche in un narcisismo di morte: da una semplice riduzione della tensione si passa ad un livello di considerazione di sé vicino a zero che può portare a preferire la morte propria o anche altrui, senza apparente soluzione di continuità, sia psichica (dimostrazione del proprio /altrui fallimento) che reale (attacco al proprio / altrui corpo).
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Il piano delle RR è l’ambito del simbolico autonomizzatosi, in funzione dell’evoluzione dei media, nel quale il singolo dà libero sfogo, in parallelo con l’espandersi delle sue protesi comunicative, alle proprie capacità immaginifiche, creative, progettuali o frutto dei sogni e delle allucinazioni più estreme: è anche l’ambito, più o meno per nulla controllato, di espansione di un simbolico (di RR) che, tuttavia, mantiene un problematico legame con le azioni per il fatto di poterne essere, comunque, il potenziale motore.’