Signora mia, ai miei tempi.
Quando ho iniziato a fotografare, non avevo neanche mai sentito le definizioni di archeologia urbana e archeologia industriale. Allora i luoghi abbandonati erano uno spazio per l’avventura e la libertà. Potevo gustare le prime sigarette e respirare amianto esplorando stanze disabitate, riabitate da persone ai margini della società, o visitate da persone discrete bisognose di sottrarsi a occhi indiscreti, che a loro volta lasciavano resti, testimonianze, orme. Quei segni erano strani e belli, anche se inquietanti e talvolta disgustosi, erano soggetti perfetti. Del resto, i luoghi fatiscenti piacciono a tutti, per l’esotismo pittoresco che il rovinismo romantico ci ha tramandato e perché la morte delle cose e la polvere del tempo sono i temi universali più semplici… Le prime stampe le ho esposte in quei bar dalle pretese artistiche che fiorivano dalle mie parti. Un poco più tardi, nell’età difficile in cui o si è come tutti o si è diversi da tutti, ho iniziato a considerare le mie avventure consolatorie in quelle terre di nessuno come qualcosa di più intimo. Le prime fotografie che si fanno nella vita, con un minimo d’intento, se non artistico, almeno espressivo, di solito non si accontentano di essere un semplice documento. Ho quindi cercato di inserire dei soggetti umani, ma fotografati alla stregua di oggetti trovati o nature morte. Fotografavo persone messe lì a bella posta per realizzare degli autoritratti vicari. La loro posizione era sempre la stessa, ripiegata, quasi fetale; il viso era chino e in ombra. Nei volumi dell’Enciclopedia Fotografica avevo nel frattempo scoperto Bill Brandt. E soprattutto il mio immaginario si nutriva di cinema in visioni solitarie: il surrealismo da Kafka post-moderno del Lynch di Eraserhead, gli interni abitati e abusati del Cronenberg di Dead Ringers, più tardi il delirio sontuoso e rugginoso dello Tsukamoto di Testuo. La ripetizione dello stesso tema era un modo per assicurarmi che la foto successiva fosse migliore di quella precedente e non una sistematizzazione seriale, come è d’obbligo presso la critica d’arte contemporanea e consigliato da qualunque docente di un corso per fotoamatori. Da allora, tra tentativi e stenti, sono cresciuto e sono diventato un discreto appassionato d’arte. Ho iniziato a lavorare in una rivista d’arte contemporanea, prima come autore di racconti, poi come traduttore, infine come redattore e lì mi sono accorto, con un impotente dispiacere, dello strapotere dell’istantanea. Andava meglio alla mia compagna, che non era fotografa, e infatti esponeva fotografie. A un certo punto, abbiamo fatto un lavoro insieme, che noi chiamavamo Nostra Signora degli Stracci, che è poi diventato la mostra “Ombre dell’anima”, a cura di Fabrizio Boggiano, alla Joyce & Co. di Genova. Si trattava di foto in cui una figura femminile (lei) indossava abiti di foggia ottocentesca assemblati in verità da stracci e stoffe di recupero, sullo sfondo di sprofondi urbani fotografati per la prima volta a colori, con chiaruscuri rubati a Hayez e Caravaggio, dominanti seppiate, rugginose, verdi putrescenti, filtri trasfiguranti e altrettanti omaggi e latenti parodie della Malinconia. I detrattori ci consigliavano “più realtà” (la donna vestita così, ma al supermercato), una luce meno lavorata ed estetizzante, “fredda e spietata” (sic et simpliciter), secondo la moda del momento, e anche di investire di più nel concetto. Ma il concetto c’era: le stampe parevano, da lontano, dei quadri ad olio, con tanto di cornice (fatta di legni di recupero), ma non facevano mistero di elementi contemporanei, come graffiti alle pareti e copertoni. Erano falsi quadri d’epoca, raffiguranti un presente di sfacelo che si atteggia a passato, luoghi reali, sul punto di scomparire, rivisitati in una sorta di messa in scena teatrale e a volte cinematografica, bloccate in un classicismo doloroso e pittorico. Era il nostro modo per parlare della bellezza della decadenza e della decadenza della bellezza, il voler vivere volendo morire e il dover morire volendo vivere, cioè la condizione umana (e non solo dell’Uomo Contemporaneo). Il tutto stampato in grande formato, con generosa presenza di grana fotografica (800 Iso come minimo): se qualcuno diceva che era troppa, rispondevo che allora Paolo Conte è troppo rauco. La presa di posizione non è difficile, quando non c’è niente da perdere ed è impossibile vincere. All’epoca, lo ammetto, ero affascinato da Jan Saudek e detestavo Nan Goldin. Le foto hanno girato un po’, ma abbiamo smesso di farle. Avremmo voluto fare qualche altro scatto, un giorno, ma la mia compagna è morta e quindi non credo che sarà possibile. Un’immagine in bianco e nero è sulla copertina del mio ultimo disco (“Late for a Song”, dei Dead Cat in a Bag) e devo dire che il fantasma della bellezza, i fiori e le ruote dentate, il languore dei muri calcinati mi ispirano ancora. Ma ho smesso di fare foto. Non ho mai capito se fossi io a balbettare o se parlassi con un’ottima proprietà di linguaggio una lingua morta, tuttavia il problema comunicativo c’era e la vita è troppo breve per incaponirsi. E che ne è stato delle fabbriche abbandonate della mia città? Sono state rase al suolo per le Olimpiadi Invernali e sostituite dagli aborti dei casermoni nati cioè già morti e variopinti, non meno squallidi ma senz’altro con minor fascino, nonché privi di valore storico. I gloriosi Docks Dora non hanno avuto la fortuna della Battersea Power Station. L’ultima volta che sono stato ad Artissima, tra opere pretestuose, riferimenti post-moderni, copie di copie per “fare un discorso sulla copia”, Pop Art scaduta e dadaismi inconsapevoli, mi hanno salvato due piccole stampe di Roger Ballen. Lui è tutto vero e insieme artefatto, come un Herzog della fotografia. Ecco, sarei voluto essere Ballen. Ora che ho un telefonino tecnologico, come tutti, ogni tanto, faccio snap-shots e poi le pubblico spudoratamente su qualche social network e ai miei amici piacciono. Nei gruppi dedicati proprio alla fotografia di luoghi abbandonati, le foto sono spesso talmente rielaborate al computer da sembrare schermate di un videogioco. E tra il documento intonso dei posti e interventi prevedibili e banalmente simbolici, ci vedo un po’ della mia passata ingenuità. Ma con l’analogico era tutta un’altra cosa. Eh, signora mia, ai miei tempi…